O vivremo del lavoro…

lavorolungaBologna diventa città metropolitana. Cosa vuol dire e cosa cambia soprattutto in relazione al lavoro? Finora la città è intervenuta sulle politiche di aiuto alle famiglie, ma da oggi non potrà più tirarsi fuori dal tema della mobilità del lavoro. Un po’ di risposte sono arrivate da un seminario dell’Ires, l’Istituto Ricerche economiche e Sociali della Cgil Emilia-Romagna.

Emergenza disoccupazione
Il primo dato è evidente e lo sottolinea il presidente Ires Cesare Minghini: la disoccupazione è un’emergenza sociale. Si sono fermati i dati negativi della crisi ma non il calo dell’occupazione. È così anche a Bologna, dove per tornare ai dati pre-crisi (quando il tasso di disoccupazione era un “fisiologico” 2% rispetto all’8,4% di oggi) bisognerebbe creare 31mila posti di lavoro.
Ma il nuovo lavoro non potrà essere negli stessi settori in cui si è perso. La crisi infatti ha comportato una crisi drammatica dell’artigianato, una crisi molto forte della piccola impresa e un indebolimento anche delle “eccellenze” regionali. Sarà quindi necessario pensare a nuove specializzazioni.
La nuova città metropolitana significa avere un nuovo equilibrio tutto da costruire tra la città e la regione. È fondamentale la legge regionale, che deve favorire l’attrattività degli investimenti e generare quindi nuova occupazione, andando oltre l’obiettivo di difendere quella esistente.
Esiste poi un progetto europeo (“Garanzia giovani”) molto ambizioso: fare un colloquio di lavoro orientativo  a tutti i giovani disoccupati tra i 16 e i 29 anni. Il governo Renzi si è impegnato ad attuare questo progetto stanziando 750 milioni (la stessa cifra che mette sul piatto Bruxelles). In cifre assolute sono migliaia di persone (due milioni in tutta Italia) e quindi migliaia di interventi. In Italia solo il 3% dei giovani trova lavoro attraverso i servizi per l’impiego. In Germania sono il 45%. Un progetto che aiuterebbe anche a capire meglio la situazione e a orientare gli interventi.

La città e l’Europa
Le città sono un “laboratorio” di possibili uscite dalla crisi perché come in un microcosmo sintetizzano tutte le possibilità dello sviluppo. Quindi la gestione delle crisi locali può essere l’esempio di come affrontare la crisi globale.
In questo l’Europa svolge un ruolo importantissimo e molto spesso sconosciuto alla maggioranza delle persone. L’Unione Europea infatti ci obbliga a innovare le politiche di sviluppo. Attraverso i Fondi europei di sviluppo regionale ci impone una visione basata sull’innovazione ma anche sulla competitività. Per esempio intervenendo sulle priorità dello sviluppo: consolidare ciò che esiste di valido, i “pilastri” del nostro sistema; e insieme sviluppare i sistemi produttivi ad alto potenziale, quelli appunto in grado di “fare sistema”, di unire energie e competenze; infine stimolare l’innovazione.
Parlando di Emilia-Romagna, i “pilastri” sono agroalimentare, edilizia e meccatronica (cioè l’automazione dei sistemi di produzione): con un milione di occupati significano il 50% del lavoro. I settori ad alto potenziale di sviluppo sono salute e benessere da una parte, e attività culturali e ricreative dall’altra. Infine l’innovazione, soprattutto nelle cosiddette green economy e blue economy (le economie “verdi” e “blu”), quelle che hanno un impatto minimo o zero sull’ambiente.

La città come start up
La legge regionale sull’attrattività mette al primo posto la creazione di una rete ad alta tecnologia. E si occupa delle dimensioni dell’impresa, cioè di come possiamo attrarre investimenti ma anche di come realizzare una filiera completa sul territorio, che parte dalla singola impresa e arriva ai sistemi integrati e quindi all’internazionalizzazione.
Durante la crisi si sono persi posti nel manifatturiero ma anche nei servizi alle imprese. Da un punto di vista logico sarebbe meglio ripartire dal sistema dei servizi per favorire nuove realtà produttive. Ma nella realtà la ripresa parte sempre dal settore manifatturiero. Così come sarebbe giusto innovare e favorire le start up. Ma si è visto che i finanziamenti arrivano molto più facilmente ai settori già consolidati piuttosto che alle realtà che nascono.
Il ruolo delle istituzioni è quindi importante per governare questi processi. Per esempio la città metropolitana eredita dalle province tutto il settore della formazione e quindi della riqualificazione del sistema economico. Una delle questioni che faranno la differenza sarà il tipo di autonomia che in tutto questo avrà la città metropolitana.

Quando il troppo è troppo
Nasce quindi un nuovo pezzo della Pubblica Amministrazione. Sarà in grado di fare meglio di prima? Anche sul piano del lavoro è una sfida che si combatte soprattutto sul terreno della semplificazione (o, vista dall’altra prospettiva, della complessità normativa).
La legge italiana sul lavoro è praticamente intraducibile per un investitore straniero (e a volte persino per uno italiano!) e in generale il numero di leggi è esorbitante rispetto agli paesi europei.
La complessità delle leggi e delle norme (i famosi lacci e lacciuoli) hanno come effetto quello di “ingessare” la Pubblica amministrazione. Sono la causa principale del fatto che il funzionario pubblico sia spinto o costretto ad applicare alla lettera la normativa per non incorrere in contestazioni.
Cosa si può fare per cambiare le cose? Facciamo due esempi molto concreti.
Per il primo ricorriamo ad un altro termine inglese, perché imparare da come si fa altrove a volte è meglio del fai da te di una certa politica improvvisata. In Inghilterra esiste il cosiddetto “sun setting” (che tradotto in italiano vuol dire semplicemente tramonto): tutte le leggi che non sono più necessarie o adeguate ai tempi vengono automaticamente eliminate. Sarà anche per questo che le nostre leggi sono più di centomila e quelle inglesi poche migliaia.
Il secondo esempio di semplificazione è quello degli sportelli unici, che certo hanno dimostrato anche i loro limiti, ma che possono essere strumenti importantissimi per le future città metropolitane.